venerdì 15 luglio 2016

YAHYA HASSAN (15/07/2016)


Non credo si possa definire poesia – a meno che non la si metta sul piano: versi, strofa, metrica e metafora; anche se qui, dei quattro, abbiamo solo delle frasi distribuite in versi; non si sente neppure la musicalità, un ritmo, una ricerca del linguaggio. Non credo la si possa definire poesia, ma in qualche modo la raggiunge. Diciamo che prova a mettersi di fianco e a ruggire insieme. Forse questa, di Yahya Hassan, ha una vibrazione particolare, raggiunge prima il bersaglio e costruisce sentimenti di odio e amore e comprensione verso dopo verso, tutt’insieme; un casino di emozioni alla rinfusa che partono e si fermano, inizio dopo il punto. E viceversa. La forza che scaturisce da questo libro – che non ha titolo, ma solo il nome dell’autore a lettere cubitali bianche su sfondo nero, semplicemente perché sempre e solo di lui (e della sua famiglia) si parla, in prima persona, senza alcuna maschera – sta nella sua violenza: violenza della parola, violenza del messaggio, violenza subita e violenza perpetuata. È mera descrizione. È la storia di questo ventenne di origine palestinese che vive in Danimarca in una continua lotta tra la vita e la morte, lo spaccio e le cinghiate del padre, il riformatorio e le macchine derubate, i droni israeliani e i parenti sotto le bombe. È una storia di sopravvivenza, di un mondo che non ti riconosce per quello che sei, che ti vuole come vuole e non si rassegna alla libertà culturale di ognuno di noi. Devi essere come lo Stato ti identifica: o uno di noi o sei apolide, un bersaglio facile, uno da inserire in qualche lista. Non è facile per nessuno. Yahya, se ciò che dice è tutta verità, ha visto l’inferno a casa, nel suo paese natale che non esiste e in quello di adozione. Yahya quando scrive parla, discorre come lo si fa davanti ad una birra, su qualche panchina di ogni paese e confine. Le parole sono tutte in lettera maiuscola; un grido, un attacco sonoro di chi le pronuncia; ti costringono ad urlare. Il suo linguaggio scurrile disturba il lettore, quasi ci offende col suo, ad esempio, cago una rosa con le spine / il culo mi sanguina di pazzia e vendetta / sono un antisemita di merda1. Decenni di storia e lagne spappolate da tre versi “messi in croce” se non fosse per quello che subito dopo ci spiega: mi è entrato dentro col latte materno / con i droni sopra gli olivi / con stelle e strisce e fosforo bianco / mi è entrato dentro col muro del pianto / con la compassione fin dall’Olocausto / con la compassione dei palestinesi / e io ho compassione di loro1. C’è una frattura nell’adolescente palestinese di oggi. Non si identifica in nessun movimento e crede che tutto sia caos e verità e salvezza mancate. Si sente portatore di una storia moderna molto meno specifica e fatta di stupide ripicche e violenza gratuita. Quel verso finale, e io ho compassione di loro, non è diretto ai palestinesi, ma ad entrambi le popolazioni. La vita non può essere sempre terrore e proclamazioni nazionalistiche prive di fondamenta. In fin dei conti sono entrambi nomadi in cerca di casa e serenità. Effettivamente, nessuno si aspettava l’orrore compiuto dagli Israeliani. E questo continuo allungare muri e creare e gestire checkpoint, aggiunge pazzia al dolore e coltelli e bambini senza giocattoli e terre deturpate e pianti. Non mi stupisce questa durezza verbale, questa assenza e durezza contro Dio; questa indifferenza verso la vita e la sua linearità. C’è chi lo fa con le armi, c’è chi lo fa con la politica e l’economia, c’è chi lo fa con il corpo e la penna (o il PC). Tutto ciò che si trova in questo libro è la continua ripetizione di giornate sempre uguali e sempre in declino: cinque figli in fila e un padre con la mazza2, se continui a infastidire i tuoi fratelli / ti brucio / diceva mamma con in mano l’accendino di papà3, mi sono scopato tua moglie / ti ho svuotato la casa di oggetti di valore / ho avvolto il televisore nel piumino di vostro figlio / non potrei spiegare perché4. Non si vedono vie di uscita. Le uniche porte aperte sono quelle delle celle d’isolamento o dei ricordi non proprio pacifici né interessanti. Ma in questa bolgia di malvagità e frenesia, ben misurata e calcolata, riusciamo a seguire un percorso, un’autodistruzione proclamata al vento. Le parole semplici aiutano a capire subito ogni minino particolare, ogni idea e questione. Le parolacce aiutano a non cadere nel ridicolo della retorica. Non c’è politica, ma è strapieno di retaggi politichesi. L’errore non è il ragazzo scalmanato, ma la società che lo costringe ad essere un diverso, senza protezione né comprensione – un malato da curare, da rendere docile. I testi iniziali sono molto forti e descrivono bene la situazione che, andando avanti, si andrà sempre più ad acutizzare. Qui entra di mezzo la ripetizione, sia testuale che tematica. Ormai conosciamo tutto di lui. Ad un certo punto stanca. L’ultima opera, ad esempio, detta “Poesia Lunga”, è il riassunto di tutto il libro. Fatto in dieci pagine. Ma sono esattamente le stesse cose, le stesse situazioni e le stesse legnate, con una prova linguistica sciolta e sperimentale. Rap misto ad un Gregory Corso, ma senza l’intelligenza della poesia. Questo libro è una novità nel suo campo: non ha confezioni né pretese: dice ciò che dice e lo fa senza la luna, il bosco, l’ironia, il grottesco, la composizione, un ritmo e la ricerca linguistica. È stonato. Vuole essere stonato. Il mondo è stonato. Può piacere come può essere insopportabile dopo i primi tre testi. La cosa che dobbiamo capire, noi giudici lettori, è che questa è un canto di dolore in salsa moderna. Come la poesia non è mai stata, perché la poesia vuole armonia. E io non credo che si possa definire una poesia senza armonia, armonia tra le parti – il bene e il male. La poesia è uno strumento della luce e fa luce. Anche nei contesti più duri. Ma non nel nero. Perché quando è tutto nero non serve più la poesia: lì ci sta l’uomo e la sua Storia, in prima persona. Come Yahya. Come questo libro che è un diario e un grido e un esempio di ciò che siamo per gli altri: recinti che promettono libertà.

Con troppa poesia. La poesia non ha più valore umano.

[...] MI AVETE RESO INDIPENDENTE
MI AVETE RESO IN GRADO DI FERIRE MIA MADRE
QUANDO AVETE TAGLIATO IL CORDONE OMBELICALE
NON AVRESTE MAI DOVUTO FARLO
AVREI DOVUTO ESSERE IL CANE DI MIA MADRE AL GUINZAGLIO 
LA CENERE E' CIO' CHE NON E' PIU'
L'OSCURITA' E' CIO' CHE MAI SARA'
MA GUARDATE ORA COSA HA LASCIATO SATANA
UNA FIAMMA ETERNA DEL SUO INFERNO5







NOTE

1 dalla poesia “Ci si affligge”
2 dalla poesia “Infanzia”
3 dalla poesia “Fiori di plastica”
4 dalla poesia “Confessioni” 
5 dalla poesia “Oscuramento da Jetlag”

venerdì 15 gennaio 2016

SEMPLICEMENTE TI DICO di Basir Ahang (15/01/2016)




Immaginate di essere in Afghanistan, discendenti dell’armata Khan o dei Kushana, gli antichi abitanti che costruirono i famosi Budda di Bamiyan, ormai polvere. Potete scegliere la tradizione storica che volete. Ma avete tratti mongoli e caucasoidi, in Afghanistan siete unici, riconoscibili ovunque. Siete gli Hazara, la terza etnia più grande del paese e quella che ha subito le maggiori violenze. E ancora così. Fine della personificazione. Cambiamo il pronome personale. Loro sono perseguitati. Tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento, vennero sterminati migliaia di uomini Hazara, mentre le donne e i bambini venivano violentate e schiavizzati e le loro terre occupate – presumibilmente perché si opponevano al potere espansionistico dei Pashtum e dei Sunniti, essendo loro Sciiti; presumibilmente perché Amir Abdul Rahman era un assassino.  E’ accertato che fino agli anni settanta del secolo scorso alcuni insegnanti religiosi sunniti abbiano predicato che l’uccisione degli Hazara fosse la chiave per accedere al paradiso.1” Ancora oggi sono emarginati dalla società civile. Un po’ meno sotto Karzai, come prima col nuovo governo – ancora – Pashtun. Ora vengono anche denunciati come collaborazionisti dell’Esercito americano. Vengono perseguitati dai Taleban, non possono iscriversi alle scuole pubbliche e non possono partecipare al dibattito politico cittadino e nazionale. Uccisi, annientati, polverizzati/ in nome di un dio fanatico e geloso: il loro […]/ tuo fratello volte centotrentadue/ tua figlia volte centotrentadue/ il tuo migliore amico volte centotrentadue/ chi era il numero 120?/ cosa voleva fare da grande?/ e il numero 34?/ quali erano le sue paure e passioni più grandi?/ riuscirà mai a superare il dolore la madre dell’82?2. La matematica della sofferenza. Basir Ahang la riporta come colpi di mitragliatrice. Eliminando il verbo, come a voler togliere la voce a quel Dio che non ha radici comune (il loro). Dal soggetto si passa direttamente alla conta, al numero dei caduti. Basir è un Hazara. Rifugiato politico in Italia dopo aver conosciuto i nomi dei sequestratori talebani, impegnato per il suo rilascio, dell’inviato di Repubblica Torsello in Afghanistan. Ha subito minacce e ritorsioni. E’ dovuto fuggire. Basir è uno studioso della poesia persiana e araba antica. Le sue poesie riportano un linguaggio misto, gioca con le tradizioni più significative del suo paese. La lingua è personale, delimita i confini culturali, ma non conosce frontiere. La lingua può esser di tutti. Bisogna saperla adoperare. Una riflessione molto chiara ce la offre Oliver Sacks: <<Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile. Può permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere con gli occhi di un altro.>> Basir coinvolge il lettore adoperando un lessico - che Pound definirebbe “esatto, chiaro” - usato appositamente per cogliere l’attenzione. Banu! Guarda l’accetta/ un predatore crudele/ e senza pietà/ ha tagliato la gola/ delle violette ancora dischiuse3. L’uso della metafora è parte della costruzione poetica perché non sempre la realtà è possibile descriverla. Per questo, come ho già detto precedentemente, l’immaginazione ci aiuta a immagazzinare ciò che avviene nel mondo. Non è un processo solamente personale: quando diviene scrittura o filmato, quella capacità d’interpretazione diventa pubblica; e può esser condivisa. La poesia non è uno slogan o mera descrizione. Il poeta, nel suo dramma e in quello del suo popolo, non deve lasciare scampo alla cruda realtà: la prende come viene e la scombussola con la sua passione ed energia e fragilità. Come dice Noam Chomsky: <<Il linguaggio è un processo di libera creazione; le sue leggi e i suoi principi sono fissi, ma il modo in cui i principi della generazione vengono usati è libero e infinitamente vario. Anche l’interpretazione e l’uso delle parole involve un processo di libera creazione>>. Nella poesia “Esule vagabondo4”, Basir paragona la sua patria alle sue scarpe, perché le mie stesse scarpe sono tutta la mia terra/ poiché in un mondo di tale grandezza/ non c’è posto in cui mi sia dato vivere. Ascoltare la disperazione rabbiosa che evocano questi versi. Si sente tradito, non perso: si sente tradito da tutto il mondo che non lo riconosce (e che non riconosce il suo popolo). A un certo punto della poesia, l’autore scrive: la mia lingua è sconosciuta a tutti/ persino al mio vicino più prossimo/ che ogni mattina col broncio e la rabbia/ non risponde al mio saluto/ ma io ho ancora speranza di vivere. La difficoltà di farsi comprendere nel suo esilio forzato, lo spinge a lamentarsi e a sentirsi abbandonato dalla società che lo circonda, ma questo delirio non lo allontana dalla voglia di vivere, lui cerca la speranza, lui vuole dire agli altri cos’è stato e perché tutto ancora accade, perché lui cerca la speranza. E, quasi come un messìa, ad un certo punto profetizza e conclude: forse un giorno questo nodo si scioglierà/ e la prossima generazione di questa città/ dopo aver letto la storia/ e la mia sorte/ maledirà i propri padri// questa è la mia storia/ sono un esule vagabondo/ e la mia patria non son altro che le mie scarpe. Basir ha scritto una poesia di rilievo intitolata “Semplicemente ti dico”5, nella quale viene decantata tutta la sua malinconia e collera, già dai versi iniziali dove, proferendo ad una donna (mia amata), si chiede come fare a dire ciò che non si può comprendere, come l’uccisione e la violenza verso un altro uomo. Non sa da dove iniziare. Allora comincia parlando a voce della sua gente in prima persona singolare:



[…] Sinceramente ti dico

amata

che il mio amore

è astinenza di tossico

e le mie ferite

lividi di calce



L’amore traviato in chimica (tossico) e fisicità (calce), citato in questa strofa, si riferisce alla lontananza (astinenza) e alle catastrofi (le ferite) subite dal suo popolo. Si fa voce plurale nell’atto e nei sentimenti che esprime. Questa prima scatola di versi la ritroveremo altre quattro volte, con lo stesso inizio fraseologico, ma con un contenuto non più mitigato dalla titubanza condita di timida incomprensibilità, ma il discorso diventa diretto e cosparso d’immagini secche e dolorose. Già nel passo successivo incontriamo l’improvviso mutamento:



la storia di questa terra

è solo un racconto d’accanimento

di una nazione dal potere irrisa

e dal suo stesso popolo boicottata



Qui la parola è pura descrizione. Nasce unicamente per definire, in breve, la retorica che non si smonta ma che condiziona l’andamento delle persone rinchiuse/costrette al suo interno.



Sinceramente ti dico

mia amata

qui nessuno c’è per nessuno

i cuori indugiano reclusi

le bocche cucite



guarda la mia fronte

e la ferita che vi si posa

questa è la piaga dei coltelli

affilati nella mia terra



In queste due strofe l’autore enfatizza, senza mezzi termini, la sua indignazione sia verso l’indifferenza del mondo, sia verso l’accondiscendenza del suo popolo (già intravista nella strofa precedente) a questo perpetuo martirio. La sofferenza non trova scampo: il male nasce dalla propria terra: è lì che nasce l’assassino e la vittima.



Sinceramente ti dico

mia amata

che alla fine dei conti

le rovine di Kabul

i giardini recisi del nord

le fosse comuni di Yakawlang

e i brandelli di un Buddha

ormai lontano

altro non sono stati

che desideri di un popolo afflitto



Sinceramente ti dico

mia amata

che da Afshar

a Kabul

tutto è silenzio

che i seni tagliati

di madri e sorelle

giacciono perenni sui fili

elettrici della città

che dal fondo delle rovine

ancora si odono

le urla dei bambini

strappati da un grembo

mai più fecondo



Basir, in queste due scatole, parte da una visione storica e architettonica per finire a quella umana. Parla di distruzione. Non c’è angolo nel quale si trovi il passato, ma neppure il presente perché mai più fecondo. Le immagini crude non cercano pietà, ma suggestione – che attrae, avvicina – perché, se il passato è cataclisma e il presente un aborto, ricordare è rendere materia (perenne come la scrittura), non più un valore astratto, la realtà, la consistenza delle possibilità – perché con lo sguardo che non può vedere l’alba/ anche questo fa parte dell’essere umani// ed io sono di questa razza6.



Sinceramente ti dico

mia amata

qui nessuno c’è per nessuno

le vie sono infette

e la povertà scambiato

corpi per pane

infanti per rame



forse anche tu comprendi

mia amata

che in mezzo a tutta questa miseria

non si trova spazio

nemmeno fra le righe

del cappotto di lana

di un Karzai qualunque



qui il mondo è giunto al termine

e se guardi bene

mia amata

puoi leggerne la fine

fra i solchi del mio viso.



Il finale di questa poesia non tende la mano a nessuno. La prima parte entra nell’intimità della situazione del suo paese. Le illusioni hanno generato malattie e disinformazione. Il disastro è diventato quotidianità – la morte, il clientelismo, il sequestro. Scendendo troviamo la delusione verso un uomo (Karzai) che aveva tentato una breve apertura verso il popolo Hazara, ma mai effettivamente compiuta. Si finisce con un sospiro di sconforto, trasportato direttamente sul corpo dell’autore – in quel reale che solo l’esperienza, il vissuto può definire. Basir - non può - distaccarsi dagli eventi costruiti dal suo paese. Ne è partecipe, anche se lontano, non può sottrarsi. In lui permane uno spirito di coscienza non opponibile ad altro. Gioca col pessimismo storico. Non si arrende all’ingiustizia generalizzata. Usa parole semplici, nessuna pomposità deviante. Non si arrende: aspirando un tabacco troppo amaro/ mi sono detto:/ ancora due o tre minuti/ e la vita tornerà quella di prima7.

NOTE
1 dal sito hazarapeople.com / Breve storia del popolo Hazara
2 dalla poesia 132, dal libro “Sogni di Tregua” (Gilgamesh edizioni)
3 dalla poesia Banu, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
4 dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
5 dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
6 dalla poesia Io sono di questa razza, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)
7 dalla poesia Interrogativo d’inverno, dal libro “Sogni di Tregua” (G.E.)